C’era una volta Accumoli

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C’ERA UNA VOLTA ACCUMOLI di Urbano Barbabella

Accumoli era suoni, grida e giochi di bambini, colori, odori, calde pietre grigie corrose dal tempo, volti, soprannomi, stradine scoscese, boschi, montagne, sorgenti, calde estati e gelidi inverni e camini accesi e dentro tutto questo una piccola comunità con tanti nomi e storie, ma in fondo, una sola grande famiglia.

Questo era l’Accumoli degli anni ’50 quando io passavo dalla fanciullezza alla prima adolescenza.

I suoni di Accumoli

Avete mai guardato, con gli occhi di bambino, un uomo che taglia un albero o zappa la terra, distante poche centinaia di metri da voi? In Accumoli era normale vedere ciò e cercare di spiegarsi perché quel suono sordo “Toc” dell’ascia o del bidente arrivava all’orecchio dopo che l’occhio aveva già fatto sua l’immagine del gesto; era la prova sperimentale che il suono si propaga nell’aria a velocità molto più bassa di quanto le immagini impieghino ad essere ricevute e catalogate dal nostro cervello. E’ normale e forse anche banale penserete voi, ma quel bambino di Accumoli che si soffermava a guardare quel fenomeno senza che qualcuno potesse spiegarglielo, si innamorò in quel momento della fisica e ne fece poi la sua ragione di vita.

Poi c’erano i suoni delle campane delle chiese che con diverse voci chiamavano i fedeli alle funzioni religiose quotidiane, o suonando tristi tocchi in occasione dei funerali o gioiosamente in occasione delle festività. Ora che ci penso, quei suoni di campane, anche se a festa, non mi hanno mai in fondo rallegrato, mentre conservo un ricordo vivo e gioioso del suono delle “mattavelle” che noi bambini producevamo in lungo e in largo scorrazzando per il paese per annunciare le funzioni religiose durante la settimana prima della Pasqua, quando si diceva che le campane “erano legate”; ….< a San Francesco, a San Francesco, adesso suona la prima volta…RATATATA……..>…

Ma c’era un altro suono, che sento ancora nei recessi della mia mente, ed era quello dello scalpiccìo delle greggi che rientravano in paese all’imbrunire, sopra il quale suono, come un antico canto ancestrale, si sovrapponevano le semplici note del belato di pecore e capre che tornavano dal pascolo della montagna nelle loro stalle dentro il paese.

E poi, indimenticabili, il suono dell’organetto alla festa del paese e quello delle ciaramelle alla vigilia di Natale, suoni non rari ma unici se ascoltati nelle viuzze e nelle piazzette del mio amato Accumoli.

Grida e giochi di bambini

Per me Accumoli era ed è ancora il paese che risuona delle grida e dei giochi di bambini e sono sicuro che tali grida e suoni siano in qualche modo stati assorbiti per sempre dalle sue antiche pietre grigie.

Chi non ha vissuto in Accumoli in quegli anni ’50 non può capire quanta vita corresse in quel tempo per le anguste strade e quanto quei bambini che ebbero la fortuna di nascere e vivere allora in quel piccolo borgo, siano stati fortunati.

Io sono stato uno di quei bambini fortunati.

E la mia e la nostra fortuna era quella di non avere giocattoli con cui giocare, ma la necessità di inventare giochi e la possibilità di poterli realizzare nel mondo incantato della nostra stanza dei giochi che era in realtà l’intero paese di Accumoli”.

Tutti i miei amici e coetanei si ricorderanno con nostalgia delle nostre interminabili partite di “Acchiappa-libera” o delle gare di “Bicchio”, del “Cerchio” o del “Saltamontone” e del “Saltaquaglia”, per non dire del “Papa”, del “Battimuro” o, più avanti negli anni, del “Turlinsacco” e della “Causa”.

Sarebbe utile secondo me raccontare ai nostri nipoti ed anche ai nostri figli, come era possibile allora vivere il tempo tra la realtà ed il sogno, senza bisogno che qualcuno ti mettesse in mano un oggetto alieno, computer o telefonino, che gioca al posto tuo e che ti illude che tu abbia tanti amici che non potranno mai giocare con te!

E allora rubo un po’ del vostro tempo (e qualche sorriso di compatimento dei più giovani) per dirvi come i nostri semplici giochi di cui sopra funzionassero, e lo facevano a meraviglia; ma era essenziale che il campo giochi si chiamasse “Accumoli”.

Acchiappa-libera

Era un gioco elementare ma difficile allo stesso tempo, perché il campo di gioco era illimitato, nel suo piccolo era Accumoli con le sue Frazioni e le sue Montagne.

Veniva sorteggiata la coppia degli “acchiappanti”, mentre tutti gli altri (ed erano decine), dovevano essere acchiappati ad uno ad uno e messi in sicurezza davanti ad uno dei portoni delle case del borgo che fungeva da carcere con uno della coppia messo a guardia.

La partita finiva solo quando tutti i fuggiaschi erano rinchiusi nel carcere.

Ma era una lotta impari.

Uno degli acchiappanti ingaggiava in genere un duello personale di caccia con uno dei fuggiaschi con l’intento di acchiapparlo toccandolo, ma questo lo portava normalmente lontano dal carcere a guardia del quale era solo il suo collega che veniva facilmente assediato da due o più fuggiaschi che toccando semplicemente la porta del carcere esclamavano “libera-tutti!” e la partita ricominciava e per quel che mi ricordo, poteva non avere mai fine..

Il Bicchio

Forse questo gioco ci era arrivato da Roma, dove lo chiamavano “Nizza”, ma in ogni caso richiedeva una minima attrezzatura che consisteva in un bastone lungo poco meno di un metro che fungeva da mazza e da un altro più corto (il bicchio) che veniva lanciato con abile colpo della mazza.

Ad ogni lancio si misurava con la mazza la distanza percorsa dal bicchio che rappresentava il punteggio ottenuto e dopo un numero di battute fissato vinceva la partita chi aveva ottenuto la distanza maggiore.

Ma il bello di queste partite era “che non si vinceva niente!” anche perché nessuno aveva niente da giocarsi se non il suo “onore”!

Il Cerchio

Anche questo era sicuramente un gioco di importazione, ma la difficoltà oggettiva che tutti noi avevamo di poter disporre di un vero cerchio di ruota di bicicletta assai raro a quel tempo, ci imponeva di liberare la fantasia costruendo un cerchio di legno piegato e rabberciato alla meglio che tra sobbalzi ed intoppi sulle strade sconnesse, richiedeva una maestria di guida pari a quella del miglior Vettel con la migliore Ferrari!

Il Saltamontone

Questo era un bel gioco di squadra nel quale a turno una squadra (i montoni) si posizionava in posizione prona a partire da una parete con i giocatori agganciati l’uno all’altro, pronti ad accogliere in groppa i saltatori dell’altra squadra che dovevano trovare il modo di posizionarsi tutti sui montoni e di “restare in sella” almeno per alcuni secondi con i montoni che si agitavano per farli cadere; e qui il peso dei giocatori poteva risultare determinante.

Il Saltaquaglia

Questo gioco era una variante del Saltamontone e si sviluppava lungo una strada del paese, con i giocatori che a turno erano saltatori o quaglie e continuava fino a che un saltatore non cadeva o una quaglia non cedeva sotto il colpo del saltatore.

Il Papa

Anche per questo gioco di strada era necessario un attrezzo che consisteva in una piastrella di pietra che ogni giocatore provvedeva a levigare perché scivolasse bene sulla strada in breccia bianca che era il campo di gioco, piastrella che veniva gelosamente custodita in tasca in attesa della quotidiana partita.

Questo era uno dei rari giochi in cui a volte erano in palio dei soldi, di norma le dieci lire di alluminio con la spiga sul retro, con le quali, se non ricordo male si poteva comprare uno di quei piccoli formaggini di surrogato di cioccolato o un piccolo cartoccetto di cetrato che la bottega di Tomasso vendeva insieme ai quartini di vino dell’osteria ed ai quaderni di scuola.

Il Papa era un gioco che richiedeva un certo addestramento ed una certa abilità: si ponevano le monetine in palio sopra un piccolo monolite in pietra arenaria (il papa) e, da una certa distanza si lanciava a turno la propria piastrella per cercare di abbattere il papa facendo però in modo che le monete cadessero e restassero sulla piastrella; non era un gioco facile ma quando il colpo riusciva, si vedeva il vincitore raccogliere il tesoro guadagnato e correre verso la bottega di Tomasso, con grande sconforto dei perdenti, anche se poi normalmente si divideva da buoni amici il risultato dell’investimento.

Il Battimuro

Anche questo era un gioco che metteva in palio dei soldi (le solite dieci lire) quando non si faceva nella variante “Bottonella” dove ci si giocavano dei bottoni strappati da qualche vecchio abito smesso trovato in casa.

Il Turlinsacco

In questo gioco che solo da ragazzi ormai adolescenti potevamo fare, era insita una certa dose di crudeltà e di voglia di mettere in ridicolo quelli che noi chiamavamo “i romani” e che erano dei nostri coetanei che venivano in Accumoli per le vacanze estive.

Il gioco richiedeva una certa preparazione ed anche il contributo di qualche adulto e si articolava al modo seguente:

si faceva tra un paio di noi un discorso vago circa l’avvistamento di un “Turlinsacco”, in presenza della vittima romana di turno, stuzzicandone la curiosità. Quando il malcapitato chiedeva di sapere qualcosa di questo Turlinsacco, i due compari, in veste di consumati attori, mettevano in scena la descrizione di un animale raro dalla pelliccia pregiatissima e di grande valore che si trovava solo nella nostra zona e che sarebbe stato bello catturare per poi metterlo all’asta ed avere soldi in abbondanza per tutta l’estate.

La manfrina durava per un po’ per capire fino a che punto la vittima era pronta ad abboccare e a quel punto si diceva di non parlarne con nessuno perché l’animale era protetto ed era proibito catturarlo, ma la sera seguente si sarebbe organizzata la battuta insieme ad altri amici esperti.

Ed appena la sera arrivava, possibilmente con una piccola luna ed un buio impenetrabile, il gruppo dei cacciatori di Turlinsacco si avviava, con la vittima al seguito, verso uno dei fitti boschi scoscesi che si trovano appena fuori dell’abitato di Accumoli. All’inizio del sentiero che si intendeva percorrere per addentrarsi nel bosco, il gruppo si divideva in due squadre, e quella dove non era il malcapitato, rientrava prontamente in paese per prendere il gatto che aveva una parte importante nella messa in scena.

Il gruppo con il malcapitato, che conosceva ovviamente il bosco come le sue tasche, si addentrava sempre più nel profondo lasciando per strada uno ad uno i suoi componenti fino a che il malcapitato non veniva a trovarsi da solo in una situazione di paura e di disperazione cominciando a chiamare gli amici senza ricevere risposta.

Quando si riteneva che la lezione fosse sufficiente, si avviava l’operazione recupero del romano al quale si rimproverava di non aver seguito le istruzioni ricevute per la caccia che per fortuna, grazie a loro, aveva comunque avuto successo con la cattura di un magnifico esemplare di Turlinsacco. L’animale ben vivo e vegeto e particolarmente inferocito, era in un sacco che con gesto galante veniva dato da portare, con grande soddisfazione, al romano.

Si rientrava quindi in paese, dove alcuni adulti si prestavano di buon grado al secondo atto della farsa, mettendo in scena un’accanita asta per l’acquisto del Turlinsacco, che si concludeva con una generosa offerta di diverse migliaia di lire:

Ma a quel punto il compratore voleva vedere il suo acquisto e così si diceva al romano di tirar fuori dal sacco la nostra preda; era questo il momento cruciale ed anche un po’ pericoloso del gioco al quale il gatto non si era certo prestato volentieri, e non appena veniva socchiuso il sacco per mostrare il famoso Turlinsacco appena venduto, il gatto schizzava fuori con un miaaaooooo disperato che lasciava di stucco il povero romano mentre tutti i compari si sbellicavano dalle risate.

Era forse un gioco un po’ crudele e a volte il malcapitato ci rimaneva talmente male da ripartire per Roma il mattino seguente con la Saura.

I Colori

L’Accumoli che io ricordo era sempre, in ogni stagione, una tavolozza di tenui colori.

Le case, quasi tutte di pietra grigia senza intonaco, a parte le poche con intonaco bianco sul corso principale di via Salvator Tommasi (le case dei signori!) coi loro tetti di coppi dalle mille tonalità di rosso dipinte dal tempo, e gli antichi palazzi con i loro ampi scaloni di pietra e i conci di arenaria corrosi a incorniciare portoni e finestre; e le stradine con i selci un po’ sconnessi e i muretti di pietra sui quali vecchi e giovani si sedevano a chiacchierare. E i gerani rossi sui davanzali e i colori degli orti tra le case, diversi ad ogni stagione, e le acacie e gli ippocastani lungo i viali e sulla piazza San Francesco con i loro fiori bianchi in primavera….

E il verde dei boschi tutt’intorno che in autunno si coprivano di mille sfumature del rosso e del giallo quando gli alti prati della Laga passavano dal verde al giallo e i boschi di faggio si tingevano di viola…

E sopra a tutti questi colori il cielo azzurro intenso di giorno e carico di stelle nelle notti serene.

E anche nell’inverno, sotto il candido manto di neve che tutto livellava e cambiava i colori, il quadro era sempre opera della sapiente mano di Dio.

Odori

Ah, quanti odori ho imparato a conoscere e ad amare in Accumoli che ora non sento più!

Sono i miscugli di odori di cose naturali, magari non paragonabili ai profumi francesi, ma per me profumi essenziali della vita.

Ne ricordo solo alcuni di quelli a me più cari e che forse non sentirò più: l’odore dolciastro del mosto che colava dalla vasca di pigiatura nel pozzetto di raccolta, quello appetitoso degli insaccati e dei formaggi tenuti a stagionare, e insieme a loro l’odore di muschio e di muffa delle vecchie cantine scavate nella pietra, e l’odore del pane caldo appena sfornato e quello delle castagne cotte sulla fiamma del camino e l’odore del fuoco e del fumo di legna ed anche quello forte delle stalle dove vivevano gli animali, e quello delle lenzuola di cotone grezzo asciugate sul prato fiorito in primavera, e….. quello che li comprendeva tutti: l’aria di Accumoli.

Calde pietre grigie

Le grigie pietre di arenaria erano per me la vera essenza di Accumoli. Una pietra guardata con occhio poco attento non ha niente da raccontare; ma se si guarda dentro si vedono i mille e mille granelli di sabbia che la crearono in fondo all’antico mare e si vedono anche i segni dello scalpello che la modellò per farne un concio o una semplice pietra da muro e si può essere certi che molti prima di noi hanno guardato e toccato quella pietra e che molti ancora potranno guardarla e toccarla dopo di noi.

Tranne forse quando il terremoto l’ha strappata dal suo antico sito mischiandola senza alcun senso con cento altre cose nel mucchio di macerie.

Mi piace però pensare che una nuova vita potrà essere data a quella pietra (se noi lo vorremo) perché essa racchiude il senso stesso della nostra esistenza, essa è un pezzo delle nostre radici che noi perderemmo perdendola.

Non sarà quella pietra ad ucciderci con un nuovo terremoto, ma la nostra stupidità nell’averla semmai utilizzata nel modo sbagliato o nel posto sbagliato…

Volti

I primi volti di persone che io ricordi li ho visti in Accumoli.

Mia madre, mio padre, mia sorella, la vecchia nonna Rosa (detta Scopetta), i miei amici d’infanzia e i compagni di scuola, e le tante persone del paese (allora erano tante!) giovani e vecchie e quelli che erano i “personaggi” del paese.

Perché Accumoli era ricco di persone stravaganti che erano anche fatte oggetto di amichevole scherno dai paesani ma non per questo emarginate ma piuttosto nel loro piccolo famose.

E allora ecco riemergere dall’archivio della memoria, i volti di “Scellone”, “Panaccia”, “Basilico”, “Nespolino”, “Marsiella”, “Mariettona”, “Zumpitte”, “Starace”, “Galliano”, “Sistone”, “La Belva”, “Ras”, “Stoppetta”, “Bonamadonna”, “La Zenghera”, “Battilacqua”, “Pollastro”, “Cacciatore”, “Fischione”, “Pirillo”, “Il Conte”, “Tubo”, “Il Lepre”, “Tentazione”, “Cervellone”, “Bambalà”, “Ciciotta”, “Blonda”, “Pisciarella” e ultimo ma forse il più nitido di tutti, quello di “Ventinove”, che era considerato il matto del paese perché parlava in latino ma che con noi ragazzini era di una dolcezza estrema.

Chissà perché ognuno di questi e di tanti altri volti unici che hanno popolato la mia infanzia in Accumoli sono rimasti scolpiti per sempre, mentre delle altre migliaia di volti che ho incontrato nel corso della mia vita non ne è rimasta quasi traccia.

Soprannomi

Accumoli era il paese dove tutti subivano il secondo battesimo: quello del soprannome. Dare un soprannome a qualcuno non è un fatto banale: richiede fantasia, capacità di osservazione, una certa dose di psicologia ed in fondo è un atto di considerazione se non d’amore.

A chi non ci interessa, non perdiamo tempo a dargli un soprannome.

E mi piace ricordare alcuni dei soprannomi che avevamo noi della generazione post guerra nati in Accumoli, a cominciare dal mio che era “Bif Baf” per passare a “Gigipuzza”, “Ragnonero”, “Pellino”, “Cachino”, “Picipi” “Pinco Pallino” e il mio vecchio compagno di merende “Cappelletti”.

Stradine scoscese

Acummoli lunghe lunghe, ogni passo nu sprufunne…..” questa era la definizione di Accumoli dei nostri vicini-nemici amatriciani, ed era in fondo azzeccata.

Tra Accumoli basso, il rione dei “Magnagatti”, e Accumoli Alto (Capolaterra), il rione dei “Tassi”, ci sono infatti oltre cento metri di dislivello; a volte la neve si fermava sulla parte alta mentre più in basso era solo pioggia. Questo significava che per muoversi su e giù per il paese, si andava sempre in salita o in discesa e le strade erano quelle che un illuminato concittadino sindaco dell’800 (Salvator Tommasi), aveva fatto lastricare con sampietrini di selce grigia che durano ancora, anche se un po’ sconnessi (ma in sintonia con le case), fino ai nostri giorni.

Le strade erano il nostro parco giochi e nessuno come noi ragazzini ne conosceva meglio ogni segreto. In ogni strada c’erano cento nascondigli per le nostre partite di “Acchiappalibera”, c’erano le fessure dei muri in cui si nascondeva la preziosa piastrella per giocare a “Papa” e sia in salita che in discesa le percorrevamo sempre a perdifiato.

Fuori dal paese iniziavano “le stradelle” che portavano nelle vigne e nei boschi, e anche queste erano a nostra disposizione per i giochi o per le scorribande a caccia di “cianchette” dopo la vendemmia, o di “salsetta” sui prati fuori dalle mura, o per le razzie degli alberi da frutta nella bella stagione.

Le stradelle erano anche quelle che collegavano Accumoli con le sue frazioni prima che nel novecento fossero aperte quelle comunali e provinciali ad uso delle macchine. Prima dell’era delle macchine i collegamenti tra i borghi viaggiavano su questi antichi tratturi dove il mezzo di trasporto era il paziente asino o lo scorbutico mulo e io ne ricordo l’uso almeno fino alla fine degli anni cinquanta.

Boschi

I boschi sono lì, appena oltre le case, e poi a perdita d’occhio in ogni direzione, dentro le valli e fino quasi alle cime delle montagne.

I boschi sono per me la degna cornice di ognuno dei nostri piccoli paesi, alcuni dei quali vi sono addirittura immersi dentro e si fa fatica a distinguerli da lontano.

In basso e nelle valli domina il castagno che veniva curato sia per i gustosi marroni che per il solido legno che serviva a costruire le case e i mobili; più in alto si distende il cerro per dare il combustibile con cui si scaldavano le case e si cucinavano i cibi e le ultime balze prima delle vette dei monti le colonizza il maestoso faggio, con il cui legno una volta vivevano i carbonai.

Ho visto solo pochi anni fa una delle ultime carbonaie in costruzione prima del bosco di Pannicaro e mi sono fermato ad ammirare la maestria e la sicurezza con cui i carbonai disponevano a piramide i sottili rami del faggio, selezionandoli per omogeneità di dimensione per ricoprire poi la pira con un compatto strato di argilla ed appiccare poi il fuoco che lentamente doveva trasformare il legno in nero carbone.

Peccato che questi antichi mestieri siano destinati a scomparire e che i nostri nipoti forse non potranno mai vedere il fumare di una carbonaia.

Tutti i boschi, come le persone, hanno un nome, un nome antico che si tramanda nei secoli: e per trovarli basta cercare “L’Azzico”, “Il Quarto”, “Pannicaro”, “Terra Rossa” e tanti altri.

Montagne

Anche le montagne, come i boschi, hanno il loro nome e si chiamano:

“Ciambella”, “I Pozzoni”, “Monte Utero”, “Pizzo di Sevo”, “Pizzetto”, “Macera della Morte”, “Cima Lepri”, “Pizzo di Moscio”, “Gorzano”, “Le Vene”, “La Laghetta” e poi “Vettore”, “La Sibilla” … e poco più oltre “Il Gran Sasso” che si vede bene anche dalla Madonna delle Coste, anche se non lo consideriamo una nostra montagna: ne abbiamo già abbastanza!

Noi nati in montagna abbiamo sempre provato rispetto per le montagne e non ci siamo mai avventurati a visitarle in scarpette da ginnastica e T-shirt come certi turisti della domenica, ma scarponi da montagna e un key way di scorta nello zainetto insieme alla borraccia dell’acqua, un bel panino con salame o prosciutto locale e un coltello multi-uso; quelli più previdenti non disdegnavano di aggiungere un siero antivipera.

Sì, perché sulle belle montagne qualche vipera capitava spesso di incontrarla e a chi si muoveva troppo distrattamente poteva capitare di mettergli una mano sopra o addirittura di portarsela a casa nello zainetto: vero, Andrea?

Questo inverno, ormai passato, il primo dopo il disastroso terremoto che ci ha colpito, tutte queste montagne hanno dato il meglio di sé, coprendosi di uno spesso e soffice manto bianco, come a voler dormire a lungo per dimenticare anche loro i troppi tremiti che ne hanno scosso le fondamenta.

La cosa più bella sulle nostre montagne l’ho sentita da un giovane soldato del nord che era lì a far la guardia alle nostre macerie, che in una bella giornata di sole di questo febbraio mi ha detto: mi sembra di essere a casa mia sulle Dolomiti!

Non credo che volesse prendermi in giro.

Sorgenti

Chiare, fresche, dolci acque della Laga! Dovunque tu vada, in ogni stagione, non avrai mai il problema di rimanere a secco sulle nostre montagne!

In ogni canalone scende un ruscello con un dolce mormorio e puoi fermarti a rinfrescarti o a bere a sazietà dicendo: mamma mia quant’è fredda!

Lassù in montagna le acque, anche in estate, hanno il sapore della neve appena sciolta e il mio posto preferito è la sorgente del “Chiarino” a Pannicaro, all’ombra di un vecchio faggio sul quale qualcuno ha tatuato il proprio nome, dove ho sicuramente gustato più di una colazione con panino ed acqua a cinque stelle!

Poco più su puoi goderti il riposo sulla riva del Lago Secco o del Lago Nero e magari, con un po’ di pazienza e di fortuna, vedere anche un tritone italico.

E se butti lo sguardo in basso a sinistra puoi vedere Accumoli: ma ora è meglio non guardare là.

Calde estati

Com’era pulita e calda l’acqua del Tronto in estate!

Si, perché in estate, in quegli anni cinquanta e sessanta la nostra spiaggia era in riva al Tronto dove imparai a nuotare per poi passare ai più impegnativi bagni nel Lago Scandarello.

L’estate in Accumoli mi sembrava particolarmente calda, forse perché gli inverni erano particolarmente freddi e la differenza di temperatura era tanta.

Per noi l’estate cominciava già a Pasqua, precisamente a “Passalacqua”, quando ci facevano mettere i calzoni corti. Quindi la nostra era un’estate che durava almeno sei mesi, fino alla riapertura delle scuole, quando arrivava il momento dei calzoni lunghi.

Tutti questi lunghi periodi di tempo sono nella mia memoria come “le lunghe estati calde” accumolesi.

In realtà, faceva caldo solo di giorno, perché non ricordo che di notte si soffrisse il caldo o si dormisse senza almeno una copertina di lana, e a pensarci bene, mi ricordo che qualche volta anche in agosto poteva arrivare un po’ di neve sulle cime delle montagne e si diceva allora: “l’estate è bella e finita!”

Ma a me piace ricordare solo quelle giornate speciali quando il sole di Accumoli mi scaldava sia fuori che dentro l’anima.

Gelidi inverni

E c’erano anche gli inverni, a volte veramente lunghi e particolarmente freddi.

Me ne ricordo uno in particolare, l’anno del “nevone”, forse il ’56, quando con due metri e passa di neve, non andammo a scuola per circa un mese.

Ma non è che questo ci sconvolse la vita; intanto si camminava nel paese entro cunicoli o gallerie scavate nella neve e noi ragazzini, con i nasi sempre colanti di moccio, eravamo eccitati da quel mondo nuovo che la natura ci stava offrendo e che ci permetteva di inventare nuovi e più divertenti giochi.

Le “traiole” erano richiestissime e chi non aveva la fortuna di possederne una si arrangiava con vecchi vassoi di latta o bagnarole sottratte di soppiatto alla vigilanza materna. E così le stradine del paese erano piste di “bob”, talmente allisciate dal nostro ininterrotto su e giù, che per le persone, soprattutto anziane, era difficile percorrerle senza piombare pesantemente a terra e credo che mai come allora siano volati per l’etere accumolese tanti “ve pozzano ammazzà”!

Camini accesi

L’antidoto per i gelidi inverni erano i grandi camini sempre accesi con il caldaio per l’acqua calda attaccato alla catena e la cuccuma in rame sul treppiede con la brace sotto, dove bollivano le patate o le mosciarelle.

I camini hanno sempre avuto per me un fascino speciale; forse perché avevo la fortuna nella mia vecchia casa di averne uno così grande da poterci stare dentro, sulla provoletta, mentre il fuoco ardeva.

E lì mi rifugiavo rientrando intirizzito e inzuppato dalle scorribande sulla neve, e vedevo i miei scarponi asciugarsi fumando infilati sui capifochi mentre divoravo, con quel tepore tutt’intorno, la fetta del pane e miele o sale e olio della mia merenda.

E la sera, prima di andare a letto, si metteva un po’ di quella brace nella ciotola di terracotta che, posta dentro il “prete”, faceva in modo che anche il tuo letto ti accogliesse in un caldo abbraccio che ti preparava ai migliori sogni.

E la Bestia arrivò.

Nel buio della calda notte di Agosto, e il suo muggito prese a scuotere le vecchie case di pietra come foglie nel vento e gemevano, le vecchie mura, e cedevano di schianto le vecchie travi e cadevano i vecchi tetti; e dopo un ultimo lugubre rintocco cadevano le vecchie campane e i campanili e le case e le chiese, e la Bestia aveva inghiottito in un attimo tutto ciò che il sudore dell’Uomo aveva eretto nei secoli.

E su quella terra, aspra e dimenticata dell’Appennino, cadeva una polvere, fitta e bianca come neve, come un sudario, che riempiva gli occhi e la gola di tutti quelli che la Bestia aveva risparmiato forse perché le loro vecchie case di pietra non erano ancora pronte a morire, è così … vero, Toto?

Arriva presto l’alba. Un’alba livida, irreale, con fantasmi coperti di polvere e sguardi sperduti che si aggirano ebeti tra i cumuli di macerie fumanti dove poco prima dormivano i loro cari, i loro amici e gli sconosciuti che non erano stati così fortunati: Rossella… Sabrina…. Andrea…. Natalino…. Paolo…. e cento altri.

Tu ed io eravamo lì, nonni fortunati, con i piccoli Davide ed Elia strappati dal sonno ma vivi, come i nostri più cari amici e tutti i parenti salvi come in un miracolo.

Ma quella polvere che non abbiamo più negli occhi e nella gola è ora scesa a coprire forse per sempre i nostri cuori.

Coraggio Amici, rialziamo la testa per guardare lontano.